La giusta misura delle cose - Ironic Pulp |
Eravamo arrivati ai ferri corti. Per una donna, ovviamente. Non era certo la prima. Non era nemmeno la seconda. Credo fosse la settima o l’ottava, non so. Per quel che ricordavo, avrebbe potuto essere anche la decima. A un certo punto ho smesso di tenere il conto. Avevo cose ben più importanti a cui pensare durante il giorno, che appuntarmi nomi di donna in una stronza lista.
Con la prima, ho abbozzato. Può capitare, mi sono detta. E sono andata dritta per la mia strada. Non mi sono sentita molto diversa da mia nonna, che sopportava corna e umiliazioni dal marito vecchio stampo, nell’Italia maschilista del Dopoguerra, senza battere ciglio. Una vera moglie di una volta, di quelle tutte d’un pezzo, che non si lasciavano intimorire da un profumo un po’ più intenso o da una macchia di rossetto sulla camicia, e facevano finta di niente. Per la famiglia. Per la rispettabilità. Noi non eravamo sposati. Ma pure io avevo deciso di fare finta di niente, come se nulla fosse. E quando lui, pentito, si era scusato dicendo che ero io l’unica donna che amava e che si sarebbe preso cura solo di me, non stavo più nella pelle. Sentivo di aver fatto la scelta giusta. Fino a quando non incontrò la seconda. Mi chiedo ancora oggi se quella non facesse il mestiere. Lui mi tornava a casa con una tale puzza addosso, un olezzo di profumo dolciastro mischiato a umori di varia provenienza, che lo obbligavo a lasciare i vestiti fuori dalla porta a prendere aria nel giardino una notte intera. Pure Lillo, evidentemente ispirato dalle varie essenze che il mucchio di abiti emanava, faceva pipì sopra ai pantaloni. Era meglio il piscio di cane, che quell’odore nauseabondo di zoccola andata a male. Il giorno dopo prendevo tutto indossando i guanti di plastica, camicia, maglia della salute, pantaloni, mutande e calzini. Erano freddi, rigidi e stecchiti dopo una sana nottata all’addiaccio, e li mettevo in lavatrice insieme a un buon detersivo e qualche dose in più del solito di disinfettante. Contro i batteri. I virus. Le zoccole. Facevo terra bruciata sui tessuti. E piangevo. Piangevo ovunque. Mentre attendevo che finisse il ciclo di lavaggio e la centrifuga. Mentre minacciavo con la scopa Lillo che ci aveva preso gusto e voleva rifarla sugli abiti freschi di bucato. Mentre passavano le soap opera in televisione. Mentre facevo il sugo all’amatriciana per cena. Avrei potuto benissimo diventare una meta turistica per casalinghe disperate, in stile Niagara Falls, e raccontare la mia esperienza, fondare un club, guadagnarci pure. Ho sempre avuto poco fiuto per gli affari. La terza non me la ricordo. Forse era quella delle telefonate ad ogni ora del giorno e della notte. E non per minacciare me, ma per parlare con lui. Voleva sfogarsi di continuo, avere una spalla maschile su cui vomitare le sue infelicità e le sue frustrazioni. Per questo esistono gli psicologi, gli ripetevo a dentri stretti. Lui glissava e faceva finta di non sentirmi. E continuava a tenere la cornetta ben attaccata all’orecchio. Come se solo lei avesse dei problemi. Non sono certa fosse la terza, potrei anche confondermi con la quarta. L’ho detto, non tenevo più il conto, e ora come ora non ho una lista valida a portata di mano. Ogni volta, come la prima. Con una sola differenza. Ormai eravamo già sposati. Per il resto, stesso copione. Ogni volta erano fughe, e pianti. Urla, e litigi. Scuse, e rimorsi. Ho sempre fatto finta di niente, mandato giù il rospo. Ho sempre perdonato. Che azione nobile, il perdono. E che grandiosa parola dal significato profondamente umano. La nota positiva in tutta questa storia è che ho scoperto in me una forza di volontà e una flessibilità che non credevo di possedere. Proprio io, la donna rigida, che diceva peste e corna degli uomini. Se solo il mio uomo proverà anche solo a guardare un’altra, ripetevo sempre alle mie amiche, gliela farò pagare. E invece? Invece niente. Fino a quella volta. Quella che ha messo fine a tutto quanto. Ha messo fine alla farsa. Di solito la gente pensa che il tradimento sia passare di letto in letto mentre a casa c’è una fidanzata o una moglie che lo aspettano. Il mio problema non era affatto questo. Se il mio compagno andava a letto con un’altra, non mi interessava più di tanto. Il sesso è così volatile, l’attrazione così effimera, che passa in fretta e lascia un senso di stordimento, che massimo in un paio di giorni se ne va. Il mio problema era un altro. Ed era lui. Non era capace di dividere il sesso dal sentimento. O meglio, non era capace di mantenere la giusta misura tra le due cose. E assicuro che è molto più tragico vedere che il tuo uomo si preoccupa per un’altra, che sapere che se la scopa e basta. Gli equilibri di coppia se ne vanno a puttane, quand’è così. E sfido a farglielo capire, con quella testa dura che si ritrova non ci sarebbe riuscito nemmeno un caterpillar. Io, comunque, non avevo ancora avuto risultati decenti. Per questo eravamo ormai arrivati ai ferri corti. Grazie anche a lui, e al suo grande fiuto di cacciatore, con cui riusciva a raccattare solo le prede più scarse e i casi umani più assurdi. Forse le attirava. Aveva scritto “assistenza sociale con prestazione sessuale compresa” in fronte, chissà. Al ché un giorno sono sbottata, e l’ho affrontato. Quel giorno è stata la sua fine. Perché una volta iniziato, non sono più riuscita a fermarmi e lui è stato costretto ad ascoltare me, per una volta. E io avevo cinque anni di arretrati. Una donna sana di mente, di sani principi, che ti si voglia scopare e basta, senza riversarti addosso i suoi problemi e le sue fisime, esiste? Avevo iniziato così, dopo l’ennesima telefonata della disperata di turno che doveva assolutamente vederlo sennò si sarebbe tagliata le vene. E che palle! Nei nostri due più tre anni, due di fidanzamento e tre di matrimonio, era riuscito a collezionare una depressa cronica, una ninfomane, un paio di ultratrentenni disperate in cerca di marito, una sposata con una storia di violenza domestica alle spalle, una bulimica di cui mi ritrovavo a pulire il vomito sulla suola delle sue scarpe quando tornava a casa, e una con manie suicide. Un record. Cazzo, che latin lover! E tu? Sei capace di fare lo stallone solamente con donne deboli e bisognose di tanto affetto? Solo così dimostri di essere uomo? Sì, perché lui “si affezionava”. Lo ripeteva di continuo, e più lo ripeteva, più mi mandava in bestia. Lui non ce la faceva a fare sesso senza sentimento. Non voleva farle sentire puttane. Una cazzata fenomenale. Anche perché io mi “affeziono” a un cane, di solito. A Lillo sono “affezionata” ormai. Ero “affezionata” anche alla mia gatta Bigia, quando avevo dieci anni, e le tiravo la coda e i baffi per esprimerle il mio affetto. Lei mi graffiava, non era troppo contenta, ma a me non interessava, e la tenevo come compagna di giochi. Perché, in fondo, le volevo bene e questo significava pure qualcosa, no? Visto che hai un vero talento naturale, e aspirazioni così alte, ti ho organizzato un bel meeting, gli ho urlato. Eravamo arrivati alla fase conclusiva. L’avrebbe capita adesso, o mai più. L’ho visto sbiancare in volto. Aveva intuito. La mia vendetta stava per iniziare, e con quale gusto da parte mia. Una volta finito di legarlo con il nastro adesivo nero da sequestri, bello robusto, indistruttibile, una volta finito di imbavagliarlo con una bella pallina rossa infilata in bocca e un laccio di cuoio a tenergliela spinta in gola, una volta finito di adagiarlo sul tavolo del salotto, come un salame in bella mostra, ho fatto entrare in casa, una dopo l’altra, le amanti che col tempo aveva collezionato. A vederle tutte insieme, non lo avrei creduto possibile. Era un bel numero. Mi avevano riempito il salotto, che non è proprio piccolissimo. Alcune erano davvero delle belle donne, per carità. Ma quando si sono messe a sedere e a un mio rassicurante e accomodante cenno hanno iniziato a raccontare, tutte insieme, i loro problemi, ho capito che il gioco non valeva la candela. Mi sono infilata i tappini di cotone nelle orecchie, e ho iniziato a fare i lavori di casa. Ho preparato il pranzo, ho rassettato la cucina, ho dato da mangiare a Lillo tutto felice e scodinzolante, ho fatto il bucato, ho guardato la mia soap preferita, ho iniziato un libro nuovo, ho letto la solita rivista e ho lasciato passare il tempo, fino a sera. Tenendo d’occhio che mio marito non facesse scherzi e tentasse, chissà come, di fuggire. Training autogeno, rilassamento, meditazione, esternazione delle più sofferte paranoie mentali contemporanee. Una tavola rotonda di urla, pianti, disperazione. Un outing davvero particolare, presieduto da un uomo costretto ad ascoltare le storie più diverse, senza possibilità di replica, senza possibilità di andarsene. E’ stata una giornata costruttiva per le signore. Mi sono state riconoscenti. Le ho viste andare a casa felici, più sollevate. Mi hanno addirittura chiesto se, per caso, potevo organizzare un’altra seduta. Mi hanno pregato, in tal caso, di informarle. Ho detto sorridente che avrei fatto sicuramente sapere loro qualcosa, in merito, sotto gli occhi terrorizzati di mio marito. E’ stata una giornata po’ meno costruttiva per lui. Il salame. Quando gli ho tolto il laccio di cuoio e la pallina dalla bocca per lasciarlo parlare, quasi non ci riusciva, era rincoglionito, tutto indolenzito, la mascella gli faceva male. Ha iniziato a frignare, a dirmi che davvero, aveva capito, che non l’avrebbe mai più fatto, che sarebbe stato fedele e che da quel momento in poi si sarebbe occupato di me. Solo di me. Di me, e basta. Ma ti prego, diceva biascicando e disperandosi, non chiamarle più in casa nostra! Da quella volta, ha mantenuto la sua promessa. Sì, le abitudini sono dure a morire e continua ad esserci qualche storia di sesso nella sua vita ma, chissà come e perché, lui ha imparato a tenere le distanze e a dividere ottimamente il letto dal sentimento. Ora non si “affeziona” più. E quando ho un problema di cui parlargli, scatta sull’attenti e mi ascolta. Senza interferenze. Senza file da rispettare. Perché, da brava casalinga, io ho sempre odiato aspettare il mio turno.
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