Electioneering - Storie |
Per te, F. “When I go forwards you go backwards and somewhere we will meet…”Ricordo che la cantavi sempre a mezza voce, aprendo un poco le labbra, quasi come avessi paura di farti sentire. Le stringevi e si increspavano appena, poi le rilassavi e seguivi le parole. L’espressione che avevi ti dava quell’aria un po’ così, da intellettuale un po’ alternativa. Ci stava bene, sul tuo viso, quell’aria lì. Si sposava bene col tuo modo di vestire, non griffato né trasandato, una sana via di mezzo a cui avevi dato il tuo stampo personale indossando a volte dei foulard pastello rosa o azzurri. Chi ti guardava giudicandoti a prima vista, la prima cosa che diceva di te era “sembra una brava ragazza”. Ed era vero, anche a conoscerti bene.
Io ero l’opposto. Eccessiva, in tutto. Eccentrica, talmente stravagante che la gente si girava per la strada scioccata, a volte scandalizzata. Dalle scarpe agli accostamenti all’acconciatura ai minimi particolari, ero lontana anni luce dalla normalità. In fondo lo facevo per mascherare la mia insicurezza. Le unghie di colori diversi per avere l’arcobaleno sulle mani, i capelli spettinati che tutti mi prendevano in giro con le solite frasi fatte delle dita nella presa o della moto senza casco, i pantaloni dalle tinte improponibili rigorosamente di plastica. E ascoltavo musica techno.
Figuriamoci. Una come te, sempre perfetta, abituata ai tuoi adorati Radiohead e a tutti quegli altri gruppi “capaci di suonare”, che si ritrovava ogni mattina fianco a fianco sul treno una sua ex compagna di classe delle elementari che non vedeva da anni e aveva riconosciuto a malapena, una tipa fuori di testa abituata alla unz unz ripetitiva, ossessiva, ipnotizzante. Chissà che cosa potevi provare a condividere il tuo tempo, a farti vedere in giro con una così. Sotto sotto, nonostante fossimo tanto diverse, so che avevi pensato la stessa cosa a cui avevo pensato anche io: che eravamo cambiate tutte e due, ma che in fondo non importava.
Quell’incontro ce l’ho fermo nella testa come fosse ieri. Ci sono certi momenti che ti rimangono in testa, nitidi come fotografie. Era il 1997, alla stazione di Modena, un freddo che gli occhi mi lacrimavano. Il treno era in ritardo come al solito. Ero seduta su un rudere di panchina scarabocchiata insieme ad altre persone, donne anonime e indifferenti, uomini d’affari in ventiquattrore, altri studenti sfaticati come me, vecchi con la valigia che se ne andavano chissà dove. Sei arrivata lì davanti a me, una libellula trasportata dal vento pungente delle otto e cinque del mattino, leggera e sottile come un giunco, dorata e impalpabile come un raggio di sole. Ti ho guardata, eri di spalle e io ho pensato: “Ma, è lei?”. Ti sei girata, distratta, nella mia direzione e il mio dubbio s’è fatto certezza. Quella testa bionda ha riacquistato un volto, il volto ha scavato nella memoria ma non ha avuto bisogno di troppo spazio per raggiungere il suo obiettivo: eri rimasta tale e quale a come ti avevo lasciata. Solo un po’ più grande, ma i lineamenti erano quelli lì. Quelli della bimba con cui giocavo a pallavolo nel cortile della scuola insieme agli altri compagni.
Il neurone che per caso si trovava in quell’angolo del mio cervello si era illuminato e grazie a lui, in quel vuoto siderale, lampeggiava di nuovo un nome. Un nome che non avevo pronunciato per anni. Fabiana.
Non so come ho fatto a essere così pronta di riflessi. Ti ho inviato un cenno di saluto, sorridendoti, e tu mi hai guardato. Ci hai messo un po’ a mettere a fuoco, a capire chi ti trovassi davanti, chi fosse quella pazza che sembrava scappata da qualche rave e per caso si trovava come te ad aspettare un treno per Bologna; ce ne hai messo di tempo, più di me, a capire chi fossi. Piercing nel naso e uno sul sopracciglio destro, capelli blu sparati verso il cielo, a destra, a sinistra, decisamente aerodinamici. Giubbotto corto in vita, jeans larghi, scarpe da ginnastica con quattro centimetri di zeppa fuxia. Un’astronauta capitata per caso alla stazione di Modena. Un’aliena che aveva perduto la strada di casa come E.T. Tu col tuo visetto pulito, io incazzata e in lotta col mondo. Eppure hai ricambiato il saluto e anche il sorriso. Alla fine c’era voluto poi poco a ricucire il filo interrotto da otto anni di medie e superiori in scuole diverse.
Sul treno ci siamo sedute vicine l’una all’altra e ci siamo aggiornate sulle rispettive vite. Con calma, senza fretta, tu. Concitata e tutta presa dalle mie storie, io. Una sorpresa prevedibile, vederti, tu che eri sempre tra le più brave e non avevi mai preso brutti voti. Eri destinata ad andare all’Università. Io meno, ma in un barlume di lucidità avevo deciso di non buttare all’aria il mio futuro: avevo colto l’occasione quando i miei, pur di mandarmi lontano dalla compagnia di amici gabber che frequentavo, si erano detti disposti a mantenermi per altri quattro anni negli studi. Non avevo smesso di vederli, ma era vero che avevo meno tempo per stare con loro e per dedicarmi alle loro vite sballate, iniziando a sbarellare meno pure io. In quello ci avevano visto giusto.
Tu eri bella come alle elementari e non eri per nulla cambiata. Minuta e scattante, dal sorriso malinconico e gli occhi svegli. Non capivo mai se eri triste o felice e questo era rimasto un tuo marchio di fabbrica: se avessi dovuto descriverti a qualcuno che non ti conosceva, avrei detto che quando ti guardavo mi veniva in mente la Gioconda. Con quel suo sorriso ambiguo che non svela mai quello che pensa.
Quando non avevi voglia di parlare o dovevi ripassare un testo per un esame, ti infilavi nelle orecchie gli auricolari e ti mettevi ad ascoltare i Radiohead perché per te erano i migliori. Dicevi che ti aiutavano a isolarti dal mondo. Io un po’ ti invidiavo perché non riuscivo mai a studiare ascoltando la mia musica, la techno si sposava poco con la lettura e la comprensione, col suo ritmo martellante da bucare il cervello: quando ero vicino all’appello dovevo tenere il lettore spento e lasciarlo nello zaino. Lo usavo soprattutto durante i tuoi momenti di distacco, perché se tu studiavi io non potevo parlarti e mi rompevo le palle, così almeno ascoltavo musica. Ma il più delle volte ascoltavo te.
La tua canzone preferita era Electioneering e la sussurravi più forte degli altri pezzi. Io reclinavo la testa su una spalla o la appoggiavo allo schienale e ti ascoltavo seguendo le parole. Ci ho imparato l’inglese, con te. Nessuno s’è mai lamentato, nonostante non fossimo mai sole in treno. È che tu non infastidivi, eri talmente delicata che alle volte mi chiedevo se per caso non ti sentissi solo io. Chiudevo gli occhi e la tua voce sottile e leggera mi cullava come una ninna nanna, trasportandomi lontano. Se mi addormentavo alla fine eri tu a dovermi scrollare per svegliarmi: quante volte l’hai fatto, io ammazzata di stanchezza dai rave del fine settimana, tu che scrollavi la testa e dicevi “lascia perdere”. Quando ti sei laureata, un anno prima di me, ci eravamo ripromesse di sentirci spesso. Ma la vita a volte va diversamente. Così è stato anche per noi.
Ricordo la mia sorpresa quando qualche anno dopo ti ho intravista a Modena, camminare tra la gente, in un giorno di mercato. Io ero ferma sull’auto ad aspettare che mia madre finisse di fare la spesa. Tu camminavi, verso dove non saprei, insieme a tua sorella. Avevi addosso una giacca scura imbottita che ti avvolgeva e ti faceva sembrare così piccola; avvolta lì dentro eri l’ombra di te stessa. Ho faticato a riconoscerti.
Quando ho collegato il tuo volto al tuo nome, lo ammetto, ho avuto paura. Mi sono sentita fuori posto, fuori luogo. Mi sono comportata da codarda perché invece di scendere dall’auto, venirti incontro e abbracciarti, chiederti che cosa fosse successo, dirti che non dovevi fare così, che non potevi, non ne ho avuto il coraggio e sono rimasta pietrificata, le mani attaccate al volante, il motore spento, a fissarti. Non ho capito. Ho avuto paura delle tue guance scavate, degli occhi sporgenti e sofferenti, delle gambe tanto sottili da sembrare fili d'erba, della tua andatura insicura e traballante. Eri debole. Trasfigurata dal dolore, da qualcosa che nemmeno tu capivi. Non eri più tu. Chissà da quanto non cantavi più.
Di lì a poco saresti morta, stroncata da un’infezione polmonare, le difese immunitarie ridotte allo zero dall’anoressia, e io sarei venuta a saperlo con un anno di ritardo. Un anno di vuoto. Un anno di domande irrisolte. Il senso di colpa che scavava un buco in un angolo nascosto del mio cuore e si intanava lì, in attesa di manifestarsi. Sono tornata spesso nel posto in cui ti avevo incontrata, cercandoti, ma non ti ho mai più rivista. Ogni volta mi chiedevo “chissà come sta, se ne è uscita”. Non ho più saputo più niente. Niente.
Un’attesa di un anno, e infine sono passata a chiederti scusa. Mi chiedo che cosa sarebbe successo se non fossi stata così vigliacca, se ti avessi fermato. Forse anche tu avresti faticato a riconoscermi, senza piercing e coi capelli neri lunghi. Forse avresti sorriso, fatto sì con la testa per dire “finalmente”. Magari non sarebbe servito a nulla, magari sì. Non lo saprò mai. Ho mancato la mia occasione. A volte non c’è una ragione per gli sbagli che si fanno, si fanno e basta e si attende solamente di pagarne le conseguenze, tanto è solo questione di tempo. In fondo la realtà è quella che è, non si può cambiare ciò che è stato, perché non c’è modo di farlo. Quello che rimane sono i ricordi che in qualche modo ci legheranno per sempre.
Lo scambio di merende a scuola. L’amicizia e i litigi. Le gelosie e le riconciliazioni. Quando ti era finito un pezzettino di plastica in un occhio e sei andata al pronto soccorso. Quando dovevamo affrontare i temi e i compiti in classe ed eri sempre così brava. Quando senza saperlo ho mangiato un pezzo della tua cioccolata e ti sei arrabbiata. Quando ci vedevamo al pomeriggio dopo le lezioni per studiare e girare in bicicletta lungo i viali. Quando ti ho rivista su quella banchina. Quando cantavi e mi cullavi con la tua voce. Per tutte le cose belle e meno belle che ci hanno legato da bambine, in cinque anni di scuola. Per quelle che ci hanno legato su quel treno scassato che ci portava ogni mattina a Bologna. Per questo e per il resto, grazie.
“When I go forwards you go backwards and somewhere we will meet…”
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