Una medievista con la faccia da cartone animato - 1 - Romanzo chick lit |
“Bene e... che cosa studia signorina?” La voce leggermente gracchiante della donna sulla quarantina che da dietro ai suoi occhiali mi fissa con aria superiore mi riporta ai miei doveri di brava ragazza disoccupata che cerca lavoro. “Storia Medievale” rispondo con un lieve sorriso. La tizia assume un’espressione tra la meraviglia e l’orrore che mi pare di aver già visto da qualche parte. Mi ripete la domanda, certa di avere capito male. Inizio ad avere timore di ciò che mi aspetta nei prossimi cinque minuti. “Sì, mi sto laureando in Storia Medievale, ha presente... Carlo Magno, la Santa Inquisizione, Gregorio VII, Guglielmo da Baskerville... non necessariamente in quest’ordine...” spiego in tono neutro. Sono quasi certa che non ha capito la battuta.
“Aaaah sì, quel... l’ultimo nome che ha detto, Guglielmo da Basket...” da che?! Le cose si mettono peggio di quanto immaginassi “...lo conosco! Era un investigatore privato no? Ho letto un libro molto bello anni fa, consigliatomi da amici, c’era anche lui mi pare...” “E’ Il nome della Rosa di Eco” le suggerisco di rimando. “Ecco sì, proprio quello! Un gran bel saggio!” le regalo un largo sorriso di approvazione: presumo non abbia la minima idea che non si tratta di un saggio ma di un romanzo, perchè storicamente non è mai esistito quel Guglielmo; visto l’andazzo, se le chiedessi notizie dell’abate Cadfael mi direbbe sicuramente che fu un grande criminologo medievale da cui hanno tratto ispirazione l’ispettore Colombo e Jessica Fletcher. Andiamo avanti. “E come mai ha scelto proprio questa materia? Vorrebbe insegnare?” sforzandomi di mantenere il sorriso, le spiego che “No, non voglio insegnare, non è la mia aspirazione principale”. Mi auguro che la smetta qua. “E al di fuori dell’ambito dell’insegnamento... che sbocchi potrà mai avere una laurea del genere?” un sorrisetto beffardo le si dipinge in volto. Ora è tutto chiaro: mi prende per il culo. “Scusi, le faccio una domanda io: lei per essere qui in questa buia stanzetta ad annoiarsi, a scaldare la sedia, a vagliare gli aspiranti che mandano un curriculum e a fare loro dei colloqui, che laurea ha? Immagino Psicologia.” La tizia si blocca d’improvviso. “E immagino anche che le sue aspirazioni quando ha iniziato l’Università fossero diventare famosa come Freud, o ricca sfondata, senza mutande e seduttrice di poliziotti come Sharon Stone in Basic Instinct. Mi sbaglio?” vedo il suo viso diventare rosso come un pomodoro. “Immagino che si sarà infastidita spesso e parecchio quando tutti quelli a cui diceva quale facoltà frequentava, le rispondevano sbeffeggiandola con un “ah ah ah vai a curare i matti!” giusto? Bene. La prossima volta che un laureando in Storia verrà da lei a fare un colloquio, mi auguro che si ricordi di non trattarlo con la stessa aria di superiorità con cui ha trattato me. Buona giornata.” Mi alzo, prendo la borsetta ed esco dalla stanza, mentre la tipa impietrita non dice una parola e mi guarda scomparire dietro la porta. Ma perchè diamine mi chiedono sempre tutti, dal primo all’ultimo, se voglio insegnare?! Cos’è, sta scritto da qualche parte che gli storici sono destinati per forza a chiudersi in un’aula e a trasmettere quello che hanno studiato ad altri?! E’ la loro missione? E poi, quando dici loro che non è la tua strada, ti guardano come se fossi una fallita, un’idiota che non ha capito niente e che ha buttato quattro anni di studio, una mantenuta fannullona o peggio una spiantata che ora si ritrova senza niente in mano, alle prese con la disperata ricerca di un lavoro e di un superiore pietoso che ti prenda anche se sei una povera laureata in Storia Medievale. Almeno ne sapessero qualcosa della materia: statisticamente tutti quelli che ti trattano con sufficienza sono proprio quelli che a scuola avevano un bel 3 sul registro. Tzè. Sbollisco l’ira parlando a voce alta in auto, con la radio a tutto volume, mentre ritorno a casa. Non me ne frega se chi mi vede mi crede una pazza che inveisce da sola. “Pensa se per trovarmi un lavoro e per mettere da parte un po’ di soldi, devo avere a che fare con gente ignorante e in più anche stronza! Ma questa cosa deve finire!” Arriva il verde e sgommo spudorata, senza accorgermi che ho dietro di me un’auto della polizia. Evidentemente oggi non è la mia giornata fortunata. “Si sgomma così ai semafori? L’avevo presa per un uomo” eccoci qua... perchè mai? Le ragazze non possono sgommare? Mi mordo la lingua. Un altro maschilista travestito, magari mi racconta anche l’ultima barzelletta sulle donne che non sanno guidare: ci mancava solo questa. “Mi scusi agente, ma è stata colpa del tacco... mi è sfuggita la frizione, la prossima volta starò più attenta, non ho superato il limite” recito con un’abilità da attrice consumata. Per sostenere e dimostrare meglio la mia tesi scendo dall’auto e mostro le scarpe: con la coda dell’occhio noto che vengono sfacciatamente ignorate, e gli sguardi si soffermano sulle ginocchia e sullo spacco del mio tubino che sale sulla coscia sinistra. Il trucchetto anti-maschilista-becero ha funzionato anche questa volta. Il segreto è gettare fumo negli occhi. “Bene, signorina, dò un’occhiata alla sua patente poi la lascio andare” il fumo passivo danneggia le cellule cerebrali ma non i nervi ottici a quanto pare. Finiti i controlli risalgo in auto e riparto stando bene attenta a non lasciarmi prendere di nuovo dall’ira. Poteva anche andare peggio dopotutto.
La prima cosa da fare quando si rientra a casa è scaricare la casella di posta elettronica: è una regola assolutamente fondamentale se attraverso internet si tenta un disperato contatto coi docenti universitari. Ottenere un colloquio col papa è molto più facile. Quando Spielberg ha diretto Incontri ravvicinati del terzo tipo sicuramente pensava all’Università italiana e alla sua organizzazione. Accendo il computer, apro la posta e tra spam inutile, virus fraudolenti e idiozie speditemi dagli amici trovo l’e-mail del professore: l’aspetto da una settimana, esattamente da quando gli ho spedito la richiesta per fissare un appuntamento e parlare della tesi... s’è deciso a rispondere, se non altro. Vada per quelli che non si sono mai degnati di farlo. La leggo e inizio a inveire nuovamente: oggi avrei dovuto isolarmi dal mondo. Un colloquio oggi pomeriggio alle due?!? Ma dico, ma crede che la gente sia al suo servizio?!? Poteva dirmelo anche dopodomani, già che c’era. Come se io non avessi altro da fare che disdire appuntamenti e tenermi libera per lui... in passato avrà avuto problemi con le donne forse, sarà per questo che adesso si fa desiderare come una popstar! Mi rassegno, rispondo velocemente e con pochi fronzoli che sarò presente e metto via l’idea che mi ero fatta su un buon piatto di spaghetti aglio e olio. Oggi si digiuna fino a stasera.
Il cielo terso di Bologna pare più primaverile che autunnale, con quel suo azzurro intenso, ma non ho decisamente il tempo per stare a guardarlo col naso all’insù. Arrivo di corsa alla facoltà evitando gli spacciatori di volantini politici e pubblicitari, che non mancano mai, mi infilo per le scale schivando qualche idiota che ha avuto la brillante idea di usarle come dormitorio senza che nessuno gli facesse presente che è vietato e finalmente arrivo a destinazione. Una breve occhiata per vedere se nei dintorni si aggira “Lui”, l’Innominabile: diedi un esame con “Lui”, è stato l’unico a capire la mia tattica e mi sono presa il voto più basso del mio libretto. Non contento di questo, ora mi tortura psicologicamente e si apposta per controllare le mie mosse: poco male, è il direttore del dipartimento nonchè la personalità di spicco, qua dentro. Proprio ciò che si dice una fortuna sfacciata. Vedendo via libera, mi muovo veloce e mi fermo, ansante e sudata, al cospetto della grande porta bianca che mi divide dal mio Virgilio universitario, la mia guida spirituale, colui che col suo Sapere mi accompagnerà sino alla tesi. Guardo tutta tremante l’orologio e mi accorgo di avere un ritardo di ben 40 minuti da giustificare e maledico i mezzi di trasporto statali. Busso timidamente alla porta e una voce possente intima “AVANTI!” con un tono che mi distoglie subito dalla visione romantica del professore come buon mèntore paterno. Entro con un sorriso pudico, saluto e chiedo se posso disturbare... “Buongiorno! Sa che la sto aspettando da più di un’ora, signorina?” Esagerato!!! Dentro di me riecheggia un’imprecazione e sento che sale in fretta fino ad arrivare sù sù fino alla punta della lingua. “Mi scusi, professore...” la ricaccio giù per l’esofago, deglutendo “sa... il treno era in ritardo”. Mentre dico quelle parole provo a immaginare la mia espressione in quel momento: una vera ebete, penso. Ma sorrido augurandomi che gli sciacqui col bicarbonato facciano il loro effetto: dal gran che sono bianchi e scintillanti, posso quasi illuminare la stanza coi miei denti quando li mostro in un ampio e arrendevole sorriso... “Va bene, si sieda, che tra non molto devo andare, le scadenze si avvicinano, è ora di darsi da fare.” A me lo dice?! Non sono mica io quella che lascia fuori dalla porta i bigliettini con scritto “sono a un convegno, ci si vede tra un mese” o che si dimentica di avvisare quando cambia giorni e orari di ricevimento. Una bella faccia tosta. Inizio a prendere appunti cercando di indovinare i punti fondamentali del suo logorroico sproloquio su Gregorio VII, Enrico IV e questa stramaledetta lotta per le investiture: sarò io a dover costruire una tesi su quest’argomento, non lui. “E mi raccomando, la bibliografia è questa” lancio uno sguardo al foglio che mi tende il professore e lo prendo tra le mani. Semplice illusione ottica, controllando meglio è un plico di fogli che non finisce più. Cerco di darmi un contegno per non strabuzzare gli occhi e timidamente chiedo: “E’ da fare tutta?”. Vorrei sprofondare: gli occhi del mio aguzzino diventano due fessure, e da dietro le sue lenti sento la disapprovazione e il disprezzo crescente per la mia innocente e pura domanda di rito. “Non è un periodo semplice, come ben lei sa... perchè lo sa vero?” alla sua domanda sarcastica una gocciolina di sudore imperla la mia tempia: sono basita. “Quindi il suo obiettivo principale è raccogliere e conoscere il maggior numero di informazioni: sono cinque pagine, ho visto ben di peggio. E.. un’ultima cosa: è già tanto se gliela fornisco, una bibliografia da cui partire...” Cosa c’è esattamente di peggio?! La tortura dell’acqua forse... bere a forza ed essere presi a bastonate sullo stomaco era sicuramente peggio. Forse. Mi piacerebbe leccare l’ultima pagina e appiccicargliela sulla fronte con uno schiocco. Poi che significa questa storia del “partire”?! Cos’è, ne devo aggiungere altra di carne al fuoco? “Benissimo professore” mi alzo in piedi per concludere l’incontro alla svelta “allora porto il primo capitolo la settimana prossima se a lei..” mi interrompe subito: “Non ci sono, facciamo quella dopo” questa volta sono io a farmi inquisitrice: “Un convegno, immagino...” dico con un tono studiato ad hoc per tentare di farlo sentire in colpa. “No, semplicemente mi prendo una vacanza. Arrivederci signorina e buon lavoro!” Mi fredda senza il minimo pudore. Saluto educatamente, giro i tacchi ed esco. Ho la simpatica sensazione che qualcuno mi abbia infilato qualcosa di veramente grosso nel posteriore: sì, la riconosco, sto rischiando di farci l’abitudine e non è affatto un bene. A passi lunghi mi riavvio verso la stazione, per prendere il treno e tornare a casa: mi aspetto il solito ritardo ma il treno, questa volta, è stranamente puntuale. Capisco così che per oggi la negatività è sublimata e tiro un sospiro di sollievo. Adesso me lo merito davvero.
Estratto dal primo capitolo del romanzo "Una medievista con la faccia da cartone animato" di Eliselle
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